FLASHBACK

Valentina De’ Mathà

Flashback. Una conversazione con Valentina De’ Mathà
di Paolo Cappelletti

PC: Che cosa stai cercando di raggiungere attraverso la tua pratica artistica, Valentina?

VDM: Una più alta consapevolezza dell’esistenza umana.

PC: La tua ricerca sul concetto di simultaneità di causa ed effetto intride la tua arte. Come riesci a circoscrivere questo tema nei lavori della serie presentata in Flashback? Inoltre, poiché credo che alcuni dei lavori della serie richiamino alla mente sintetici paesaggi notturni — topograficamente ambigui ma cinematograficamente vividi —, vorrei chiederti un’altra cosa: attraverso quale tecnica riesci a lasciar emergere e poi imbrigliare la loro luce?

VDM: Si tratta di opere create in camera oscura attraverso sovrapposizioni di sostanze chimiche, variazioni di temperatura di quest’ultime, dell’acqua e fonti luminose su carte emulsionate. Il processo di realizzazione è spesso lungo e complesso, ma va gestito con velocità e dinamicità, tenendo conto delle giuste dosi dei chimici, dei movimenti, dei tempi. La tecnica è basata sul concetto di causa-effetto e sulla visione dialettica tra gli input che io do alla materia e la sua capacità di reazione, dando però ampio margine ad una percentuale di meccanismi non deterministici e sfumature tipici della fisica quantistica, altro punto cardine della mia ricerca. Narrano paesaggi luminosi, fantastici, distorsioni della psiche, epifanie, déjà vu, visioni oniriche e, appunto, flashback. Sono ambivalenti, intrisi di luce e paradossalmente, vengono realizzati nella quasi totale assenza di essa.

PC: Altri lavori ricordano le largamente note macchie di inchiostro utilizzate da Hermann Rorschach negli omonimi test psicologici proiettivi. Immagino che ciò non rappresenti una coincidenza…

VDM: No, non è una coincidenza; è una serie di lavori dedicati proprio alle tavole di Rorschach, ma in questo caso le figure ambigue sono ottenute grazie a procedimenti chimici. Mi affascinano la psiche umana e la psicologia in generale — anche se non credo nella psicoterapia. In particolare, alcuni meccanismi che si innescano in modo incontrollato nella mente umana catturano il mio interesse. In passato ho creato un’installazione interpretando la teoria di Jacques Lacan sulla “mancanza-ad-essere”, da lui denominatabéancee due video-art (TripeIl godimento è una tensione che non raggiunge mai la sua realizzazione, poiché può avere luogo solo quando non ha luogo) basati sui viaggi della mente, sulle dipendenza, sulle mancanza di lucidità, sul disturbo ossessivo-compulsivo e sul desiderio irrisolto.

PC: Da tempo, attraverso il tuo lavoro, analizzi le capacità reattive che gli esseri umani mettono in gioco di fronte a eventi inesplicabili e apparentemente inevitabili. Senti che anche in questa serie il tema sia, in qualche modo, trattato?

VDM: Assolutamente, sia attraverso la tecnica di realizzazione sia attraverso il concetto su cui è basato l’intero progetto espositivo. I flashback, le visioni oniriche, i déjà vu, i test psicologici, sono in qualche modo la manifestazione di qualcosa che è già avvenuto, la conseguenza di un evento passato che torna improvvisamente e inspiegabilmente, in modo incontrollato, nel presente.

PC: E quanto il tema della resilienza di fronte all’aumento di disordine (entropia) del sistema sociale pervade il tuo lavoro?

VDM: Sono fondamentalmente una persona incoerente e reputo ciò un pregio. L’incoerenza mi da modo di mettermi in gioco quotidianamente, di essere dinamica e sentirmi in movimento, in crescita. Alimenta il mio bisogno di rimettermi in discussione quando è necessario e di adattarmi, di plasmarmi in qualche modo rispetto agli eventi che mi circondano nel quotidiano e che inevitabilmente mi nutrono e coinvolgono, nonostante il percorso da seguire sia comunque già indirizzato e la mia indole ben definita. Il mio lavoro per andare avanti, nutrirsi e crescere, ha necessariamente bisogno di adattarsi al mio passo, di essere anch’esso resiliente. Quasi sempre creo delle opere in base ai materiali che ho a disposizione, ai luoghi che mi circondano in quel determinato momento e quasi mai il contrario. Cerco di assecondare quasi sempre i tempi della natura e di vivere, per quanto possa essere possibile, il presente.

PC: Nel finale di Belye noči,Le notti bianche, il sognatore di Fëdor Dostoevskij riassume così il suo tormento d’amore e la sua riconoscenza per Nasten’ka: “Dio mio! Un intero attimo di beatitudine!” Credi che il processo creativo e i suoi risultati possano, parimenti, portarci verso quell’attimo di beatitudine?

VDM: Mi fa piacere che tu abbia citato Dostoevskij e il suo romanzo Le notti bianche, in qualche modo riferibile ai paesaggi notturni presentati inFlashback. Sono molto legata ai grandi maestri russi e, in particolare, Andrej Tarkovskij e Dostoevskij sono annoverabili tra i miei punti cardini fondamentali. Sì, credo che questa totale apertura dell’emisfero destro durante la fase creativa e, successivamente, quella contemplativa, ti porti a toccare determinati punti che ti proiettano in uno stato di totale estasi e beatitudine che si raggiungono quando si entra in contatto con il Tutto.

PC: Che cosa è per te l’estasi artistica? Verso quali visioni ti conduce?

VDM: È un legame tra me e il Tutto. È il sentirsi concreti attraverso il senso di identità che si raggiunge tramite il fare.

PC: Vi è spesso nei tuoi lavori un quidche rimanda, a mio giudizio, a una sorta di sacralità o comunque a una ierofania, cioè alla coscienza della presenza di qualcosa di sacro. È così?

VDM: Il lavoro è sacro e va maneggiato con cura. Ha un’anima. Un’anima propria sommata alla tua. Ha bisogno dei giusti tempi, di essere contemplato e toccato da occhi sinceri e rispettato e difeso sopra ogni cosa perché è la parte più intima di te, è la rivelazione della tua catarsi.

PC: Dimostri sempre la capacità di gestire la tua pratica secondo il motto ne quid nimis, niente di troppo. Come raggiungi questa essenzialità?

VDM: Attraverso la ritualità del lavoro.