À TRAVERS L’IMMATERIEL
Mauro Benatti, Olga Cabezas, Marilù Cattaneo, Stefano Fioresi, Mya Lurgo, Mario Paschetta, Fulvia Zambon e Dania Zanotto

 

A cura di Anna Caterina Bellati

Klein divenne famoso col nome di “Yves – le Monochrome”.
I suoi dipinti, tele di ampie dimensioni, tendono verso qualcosa, come dichiarò lo stesso Klein, che non è mai nato e mai morto, verso un valore assoluto. La monocromia, principio stilistico fondamentale dell’arte di Klein, fu l’inizio di una ricerca universale. La ricerca di un punto al di fuori degli eventi terreni e quotidiani, il tentativo di raggiungere i confini dell’infinito, l’idea del vuoto, dell’immateriale, dell’indefinibile. Questi temi attraversano la sua arte, costituendo idealmente il prolungamento della sua breve vita. Klein morì nel 1962, all’età di 34 anni, ma realizzò in soli sette anni, oltre mille dipinti. Nel 1955 presentò un’opera monocroma al Salon des Realites Nouvelles, ma fu scartata dalla commissione esaminatrice, che consigliò a Klein di aggiungere un punto, una linea o un secondo colore. Tuttavia egli continuò ad essere fermamente convinto che il colore puro rappresentasse “qualcosa” in sé.
“Per me ogni sfumatura di colore è, in un certo senso, un individuo, una creatura vivente dello stesso tipo del colore primario, ma con un carattere e un’anima sua propria. Ci sono molte sfumature delicate, aggressive, sublimi, volgari, serene”.
Klein fece un ulteriore passo verso l’arte monocroma: cessò di dedicarsi alle sfumature e alle gradazioni per concentrarsi solo su un unico colore primario: il blu. Verso la fine del 1956, Klein aveva trovato quello che cercava: un blu oltremare intenso, luminoso e avvolgente che definì “l’espressione più perfetta del blu”. Il pigmento, risultato di un anno di esperimenti, gli consentì di dare espressione artistica al proprio personale senso della vita, in cui distanza infinita e presenza immediata si congiungevano in un mondo senza dimensioni. Il blu: la verità, la saggezza, la pace, la contemplazione, l’unificazione di cielo e mare, il colore dello spazio infinito, che essendo vasto, può contenere tutto. Il blue è l’invisibile che diventa visibile.
Questo puro pigmento blu, che Klein battezzò e brevettò col nome di IKB – International Klein Blue – elevava l’importanza del colore nell’arte ad un livello assoluto. Le grandi tele impregnate del Blue Klein sembravano trasformare la materialità del supporto del dipinto in un elemento incorporeo. L’osservatore, in una posizione di estrema libertà, poteva provare e percepire di fronte all’opera qualsiasi sensazione. L’occhio non era assorbito da nessun punto fisso che attirasse il suo interesse; nessuna figura o riferimenti tradizionali erano impressi sul quadro, così da indurre chi guardava ad abbandonarsi nella sensibilità e profondità di un blu ipnotico. La distinzione tra l’osservatore, il soggetto della visione e il suo oggetto cominciò a perdere di importanza. Il 1957, anno in cui Klein proclamò l’avvento dell'”Epoca blu”, segnò un momento decisivo nella carriera dell’artista. Dopo il clamoroso successo dell’esposizione presso la Galleria Apollinaire di Milano, l'”Epoca blu” venne esposta a Parigi, Düsseldorf e Londra, suscitando reazioni che andavano dallo sprezzo indignato alla mistificazione dell’artista come eroe dei nostri tempi.  Nel 1961 Klein diede vita a delle composizioni col fuoco. Con l’aiuto di grandi bruciatori, provocò combustioni superficiali su cartone, creando diverse forme. L’aspirazione di riuscire a domare uno degli elementi più distruttivi, lo aveva portato, già quattro anni prima, a sperimentare l’uso del fuoco su monocromi blu.  “Fuoco e calore sono esplicativi in una grande varietà di contesti, perchè contengono memorie stabili degli eventi personali e decisivi di cui tutti abbiamo fatto esperienza. Il fuoco è sia personale sia universale. È nei nostri cuori; è in una candela. Sorge dalle profondità della materia, si nasconde, latente, controllato come l’odio o la pazienza. Di tutti gli elementi è l’unico che incarna in maniera evidente due opposti valori: il bene e il male. Splende nel paradiso e arde nell’inferno. Può contraddire se stesso e pertanto è uno dei principi universali”. La simbiosi tra colore monocromo e fuoco può essere considerata la rappresentazione dei tentativi di Klein di incorporare in concrete forme oggettive il significato soggettivo dell’artistica ispirazione umana come forza universale e forgiante. Significativamente, la trilogia monocroma blu-oro-rosa fu uno dei temi principali degli ultimi anni di vita di Klein. Ogni colore aveva un suo specifico significato simbolico e insieme costituivano i colori del cuore di una fiamma. “Si dovrebbe essere come il fuoco indomito nella natura, gentili e crudeli; si dovrebbe essere capaci di contraddire se stessi. Allora, e solo allora, si può essere veramente un principio personificato e universale”.

“Un giorno notai la bellezza del blu in una spugna; questo strumento di lavoro divenne per me materia prima d’un sol colpo. La straordinaria capacità delle spugne di assorbire qualsiasi liquido mi affascinò”.
La spugna in quanto elemento naturale sembrava a Klein la perfetta esemplificazione di una “impregnazione con sensibilità pittorica”, visto che le spugne erano naturalmente predestinate a essere veicolo di un altro elemento permeante. I rilievi di Klein, composti da spugne sature di varie dimensioni, montate su tele dalla superficie ruvida, rievocavano il fondale dell’oceano o la topografia di qualche pianeta sconosciuto.
Quale fenomeno naturale, la spugna poteva essere presa a simbolo della dolce alternanza delle fasi di inspirazione ed espirazione, o della transizione tra veglia e sogno che conduce al sonno profondo, che promette l’immersione totale nella saggezza eterna. Tra il 1957 e il 1959, Klein fu invitato a collaborare al progetto per la costruzione del nuovo edificio del Teatro dell’Opera di Gelsenkirchen. Realizzò due enormi rilievi blu da 20×7m alle pareti laterali, altrettanti rilievi di spugne stratificate da 10×5m alla parte posteriore e due ulteriori murali a rilievo nel guardaroba (lungo 9 metri). Klein disse di essere riuscito a ricreare un’atmosfera magica per il pubblico del teatro.

L’idea per una nuova serie di opere, le Anthropométries, si può sicuramente mettere in relazione alla passione di Klein per il judo, in particolare all’impronta del corpo che rimane sul materasso dopo la caduta.
I primi esperimenti di Klein avvennero il 27 giugno 1958: applicò della vernice blue su una modella nuda e la fece rotolare su un foglio di carta steso sul pavimento. I risultati però non lo soddisfecero perchè le impronte erano troppo casuali, come l’action painting di Georges Mathieu, che riscuoteva gran successo in quel periodo a Parigi. L’idea di disegnare con “pennelli viventi” continuò ad affascinarlo. La première pubblica ebbe luogo la sera del 23 febbraio 1960 nell’appartamento di Klein. La modella, sotto la supervisione dell’artista, impresse il suo corpo su un foglio di carta affisso alla parete. Le forme del corpo erano ridotte agli elementi essenziali del tronco e delle cosce, e veniva prodotto un simbolo antropometrico, cioè quello relativo al canone delle proporzioni umane. Klein lo ritenne l’espressione più intensa dell’energia vitale immaginabile. La prima esposizione delle Anthropométries dell’Epoca Blue, che ebbe luogo il 9 marzo 1960, suscitò scalpore. Quando gli ospiti (la cerimonia non era pubblica) presero posto, Klein, che indossava uno smoking nero, diede il via e l’orchestra attaccò la Sinfonia monotona. Klein applicò il pigmento blue sui corpi delle modelle e, in un’atmosfera di massima concentrazione, diresse la produzione delle impronte come per telecinesi. La performance, che intendeva dimostrare a tutti come la sensualità possa essere sublimata nel processo di creazione artistica, generò una suspance quasi magica. Secondo Klein, le Anthropométries rappresentavano il veicolo di energia vera, reale, vitale e non soltanto, come sostenevano i critici, un ritorno all’arte figurativa. Immagini di questo tipo potevano essere prodotte soltanto attraverso la collaborazione creativa tra persone che avevano acconsentito a partecipare a un comune rituale, senza contatto personale o diretto.
Nella mente di Klein si rafforzò la convinzione che l’idea di un’opera d’arte fosse più importante dell’opera stessa, concreta e realizzata. Cominciò così a pensare ad un evento che non era mai stato organizzato in nessun altro luogo, un esibizione il cui oggetto non sarebbe stato niente di concreto, di immediatamente visibile. L’esibizione – divenuta famosa come Le Vide (Il Vuoto) – ebbe luogo nell’unico giorno del 28 aprile 1958, nella Galleria Iris Clert di Parigi. Klein eliminò tutto l’arredamento della piccola galleria di soli 20m² e in 48 ore pitturò di bianco l’intera stanza, con lo stesso solvente che usava per le tele monocrome. Forse per la natura eccentrica dell’evento, intervennero più di 3000 persone, che entrarono nella stanza vuota e silenziosa individualmente o in piccoli gruppi. Ai visitatori fu offerto un cocktail blu, preparato per l’occasione.
Sia che suscitasse ribellione o liberazione, Klein sperava che l’evento potesse trasfondere a tutti un’esperienza personale di arte. Nel complesso, le reazioni furono estremamente positive e incoraggianti. I visitatori si sentirono ispirati dalla freschezza dell’idea, che considerarono come l’opportunità di dividere un’esperienza del qui e ora, manifestazione della profonda visione dell’artista, liberato dalle restrizioni del tempo e dello spazio. Albert Camus, con un’annotazione poetica nel registro dei visitatori, scrisse: “Con il vuoto, pieni poteri”. Le Vide ispirò molte e diverse interpretazioni, probabilmente per l’unica ragione che il suo contenuto era così difficile da descriversi a parole. In ogni fase della sua arte, Klein mirò sempre a raggiungere il punto in cui diventano manifesti i limiti della percezione. Non sarebbe stato l’artista che era se avesse permesso alla sua creatività di esprimersi all’interno dei confini della tradizione e della consuetudine.
“Non esistono limiti obiettivi all’espressione artistica, né nel contenuto, né nella forma. L’unica autorità che ho sempre riconosciuto è la voce dell’intimo.”
Quando gli si chiedeva cosa rappresentasse la sua arte, Klein narrava un antico racconto persiano: “C’era una volta un flautista che un giorno si mise a suonare una nota unica, continua e ininterrotta. Dopo aver così fatto per vent’anni, sua moglie gli fece notare che gli altri flautisti producevano un’ampia gamma di suoni armoniosi e intere melodie, creando una certa varietà. Ma il flautista monotono replico che non era colpa sua se egli aveva già trovato la nota che tutti gli altri stavano cercando”. Klein arrivò a concretizzare la parabola del flautista, non solo in pittura, ma anche nella musica, componendo una sinfonia basata su un’unica nota vibrante e su un prolungato silenzio, La “Sinfonia monotona-Silenzio”. Per estensione, Yves Klein potrebbe essere raffigurato come il direttore della sua stessa esistenza spirituale, sempre pronto a dare l’incipit, alzando il braccio alla presenza di un pubblico invisibile a cui richiede l’attenzione per l’evento artistico che sta per avere luogo. “La mia vita dovrebbe essere come la mia sinfonia del 1949, una nota continua, liberata dall’inizio alla fine, legata ed eterna al tempo stesso perché essa non ha né inizio né fine…”.