DOPO LA NOTTE
Luisa Valentini

“Amo l’emozione che rompe la regola e la regola che rompe l’emozione” (Georges Braque)

 

Silvio Raffo, A Rose is a Rose is a Rose is a Rose

Le opere di Luisa Valentini propongono richiami fortemente personalizzati ad archetipi universali della letteratura e dell’arte, in primo luogo la Rosa.
“A Rose is a Rose is a Rose is a Rose” così la criptica, la cubista Gertrude Stein si esprime a proposito del fiore più esaltato e più osannato dalla letteratura universale. Quasi a sancirne l’indefinibilità per quanto attiene all’essenza del fiore archetipico, del fiore primario su cui ogni poeta ha avuto qualcosa da dire. Con l’invocazione “Rosa fresca aulentissima” inizia la letteratura italiana (in Sicilia). La “candida rosa” del paradiso dantesco è un palcoscenico luminosissimo, abbagliante di petali a ciascuno dei quali corrisponde un’anima beata.
Per non parlare poi delle metafore. “La verginella è simile alla rosa”, dichiara un cavaliere saraceno nel poema dell’Ariosto, “Orlando furioso”, deplorando il fatto che la bramata fanciulla, Angelica, si sia lasciata “cogliere” da un altro, perdendo quindi la sua meravigliosa freschezza e il suo candore.
Senza dubbio la rosa più originale – la più metafisica ed enigmatica della letteratura moderna – è quella dei versi di Federico Garcia Lorca:

La Rosa
non cercava l’aurora:
quasi eterna sul ramo,
cercava altra cosa.
La rosa
non cercava né scienza né ombra:
soglia tra carne e sogno,
cercava altra cosa.
La rosa
non cercava la rosa.
Immobile nel cielo
cercava altra cosa.

Ci sarebbe poi la “rosa alchemica” di Yeats.
Ci sarebbero chissà quante altre rose…

E quella di Luisa Valentini?
“UT PICTURA POESIS” recitava un motto barocco: la poesia è come una pittura, ma vale anche il contrario: anche un disegno, un dipinto, una scultura sono come una poesia. La rosa di Luisa mi sembra paragonabile a quella di Lorca, è proprio un “confine di carne e di sogno”: la nettezza delle linee che compongono la sua forma è pari alla forza evocativa dell’immagine complessiva. Abbiamo la sensazione di toccarla, e nello stesso tempo ci porta altrove: ci porta all’essenza archetipica del fiore, all’essenza del mistero indicibile della Prima Rosa del Creato. L’arte ha sempre questa carica potenziale di ambiguità “magica”: sia la parola sia l’immagine sono suoni, linee e insieme qualcos’altro: segni e simboli. Quei trifidi alti, flessuosi, ammiccanti non potrebbero essere degli alieni-replicanti nella scenografia surrealista di un teatro beckettiano? E quei fiori di loto, così mollemente fluttuanti nell’acqua invisibile che li culla in una sorta di laguna amniotica, non alludono anch’essi a qualcosa di arcano e primigenio? Non per nulla il loto è il fiore dell’oblio, ma anche della meditazione nelle filosofie orientali, simbolo della “stasi”, della particolarissima pausa del tempo in cui l’io si dimentica di sé e al tempo stesso si riappropria della sua essenza. Ed è ancora l’acqua, il liquido elemento riproposto sotto varie forme solide, sempre allusivamente ammiccanti, l’archetipo che ci ammalia in altre fantasmagoriche installazioni: immagini che prospettano in modo diretto o indiretto, non solo una palingenesi (birth_rebirthing) ma addirittura l’eternità come nella foglia di Gingo Biloba.